Avignone
Di fronte alle incalcolabili insensatezze storicamente agite da quello che viene definito "potere" - agite da qualsiasi espressione di potere, la cui prassi maggiore consiste nel formulare arie prive di nessi logici e di prodursi in suggestioni parche di prospettive che siano razionalmente indagabili, le quali contribuiscono pure a corrodere la solidità interiore degli individui di questo e di altri tempi - di fronte a tali arie propongo un racconto breve che scrissi anni e anni fa. Forse dieci, forse quindici. Anche venti. Lo ripropongo per tagliare con le questioni che lasciano soltanto un'acuta, sconfinata voglia di perdutezza.
Buona lettura
Vi è un'aria sottesa tra
ispirazione e esitazione in questa cittadella dai teatri e dai vicoli con targhe titolate a poeti e artisti formidabili - cittadella che annienta o
piega il tempo nell'ispirazione riflessa di questi uomini.
Ci si infila in un vicolo e il vicolo si stringe sino alla misura di una feritoia; oltre la feritoia si svela un chiostro; oltre il chiostro si allunga una lingua di asfalto nera, nerissima, che corre lungo il perimetro interno alle mura della cittadella edificata su più livelli.
Avignon. I vicoli che si stringono sino alla misura di una feritoia, le piazze che
si aprono alla fine di un vicolo, il palazzo dei Papi che si mostra
esteso nella sua geometrica e corta imponenza, e la negra lingua che rende la
città dei Papi raccolta nella sua discrezione instillano un'aria di
vertigine e di esitazione tra le svolte di questa cittadella, dove la vertigine della ragione fa capolino ad ogni passo, ad ogni sguardo: ci si volta già verso prossima curva, l'ennesima svolta, quando qualcosa parrebbe tremare.
Non è raro, durante una passeggiata notturna, udire il rumore di un passo che ha preso la
nostra direzione; al voltarsi si scorge una figura che evoca antiche memorie: una vecchia signora magra,
con i capelli lunghi, grigi, che parla una lingua che non è il
francese, ha preso la nostra direzione. E scompare.
Non si sa, forse l'influenza delle
targhe titolate a poeti e artisti che influenzano la
solitaria passeggiata, forse l'essere capitati nella cittadella durante il
periodo estivo, in cui si tappezza di manifesti per celebrare il mese
del teatro, della giocoleria, dell'artisticità di strada, non si sa ma si oscurano le costellazioni nella navigazione, si scorge la sagoma di un Kierkegaard in cima ad una
scalinata: egli ride. Una sorta di
misconosciuta attrazione ci spinge ad inoltrarci nel
labirinto del quale già si conoscono le svolte. Svolta dopo svolta la vecchia signora magra muta in
bambina, poi in orco, poi in pietra; Kierkegaard non ride più: appare Nietzsche. Dietro Nietzsche il volto di Dostoevskij: entrambi, Nietzsche e Dostoevskij, ti fissano; e si sprofonda nel
labirinto che ha preso la forma di un girone, dove ti dici: “guarda
la mia virtù s'ell'è possente, prima ch'a l'alto passo tu mi fidi”,
ma già 'sé stessi' ci giunge come un'eco lontana tra
risate, pianti, allegrie e le tue mani sono vuote. E' la
perdizione. Prende forma un profilo dai confini
incerti, carico di una sensazione di delirio: è il disegno,
parrebbe, della tua vita.
Nel fondo del girone si scorge una
scintilla: essa mostra lo scenario di un Petrarca che incontra qui la
sua Laura, in quella chiesa di Santa Chiara
dove hai sospirato per un uomo che dormiva sotto un cumulo di
cartoni. Prende vita lo scenario di una peste che si aggira per
l'Europa e che, uno alla volta, fa cadere gli abitanti di questa città popolata ormai soltanto da un quarto dei suoi abitanti: il
resto sono casse che si alternano, corpi che scompaiono, bolle di Papa Clemente VI che intima di non bruciare gli ebrei “poiché essi si ammalano
come noi”. Sono il pianto di quel Petrarca che, con Dante e
Boccaccio, diedero storia alla lingua che uso per
dire come a volte ci si perda per riscoprirsi e ricordare, con
questa lingua, la scomparsa della sua Laura per via della peste. Sono
quella vita per la quale il sipario che si vorrebbe calato è troppo
corto, troppo stretto, troppo buio sulla vastità
intrisa di un'allegrezza così crudele da sembrare arcaica,
percorsa da tratti che fanno tremare e che di fronte ad una ricetta
per farla quadrare si ribella e suggerisce: “Io sono eterna, tu non mi
puoi frenare e mi fuggo tuttavia.”
Si fugge la vita tra le vie di un'Avignone segnata da figure tagliate dalla cupezza, dall'oscurità, dal delirio della ragione sopra l'irrazionalità di quel che si dice razionale, dove la tensione sfuma tra gli arzigogoli, gli incastri, le svolte di un labirinto senza soluzione, dove si affronta una solitaria passeggiata notturna al passo di un diavolo che ci segue e dove la vita appare svelata a tratti, a tratti interdetta, celata, mai più compresa in sé poiché già prossima a rendersi altro da noi, mentre noi si va tra il magma della vita con la finzione delle mappe che 'tutto vorrebbero definire' e tutto pèrdono, mancandolo.
Avignone. La malia, la perdizione tra le svolte di un labirinto che annulla la sospensione da quel sé che tempo non ha, forse ancora riflette le voci di chi pare rinchiuso tra i canti di cieche passioni prive di ragione. È tempo di perdersi tra le curve del ginepraio che parla di noi seppur si taccia e si viva in attesa di un "eppur mi ami" che mai giungerà.
Ed è così, tra mille sospiri e feroci raggiri, che la vita si fa tra le svolte di dedali in cui il nostro nome parrebbe il solo responsabile del nostro delirio, ma ancora 'verità' non è, mentre ci si perde di notte tra le vie di una città dai mille volti che sono il tuo e mai li nominerai.