A proposito di "toys"


Già da piccolo, nella mia infantile inconsapevolezza, nella mia purezza violenta, soffrivo di quei ninnoli e di quei giocattoli che sarebbero diventati un giorno - credo oggi -, una rassegna di ricordi per i nostalgici.
In quei giocattoli trovavo un’invadenza alla mia arcaica pulsione verso la vita. Erano il filtro che distorceva il sentire le cose, gli alberi, i rumori… E si aggiungevano poi i rumori delle costruzioni cresciute all’improvviso: strade, palazzi, per separarmi irrimediabilmente da quel che percepivo essenziale e incontrovertibile.
Ma mi sbagliavo: ogni cosa scompare.
 
Erano i giocattoli, che non soffrivo. Me ne sbarazzavo, li rendevo quel che erano: aberrazioni. Man mano che li distruggevo avvertivo intorno a me un diradarsi di persone, un incipiente isolamento che mi scartava dagli affetti e dalle consuetudini del relazionarsi 'a dovere' dove 'dovere' era il codice settario, mai scritto in alcuna legge, che dettava il ritmo degli operatori di un mondo ormai ceduto alla paura: un mondo di individui tremebondi, terzi alla sapienza e tuttavia superbi proprio perché perduti e... vili, paurosi.
Col mio stesso principio di affezione verso ciò che sarebbe stato vero e necessario, così mi rastremavo negli angoli sempre più esigui dove sviluppare le mie repulsioni e sfogare le mie attrazioni.
Ma le costruzioni si sono ingigantite, gli angoli nei quali appartarsi si sono frammentati, i giocattoli si sono moltiplicati; e per me, che provavo un’istintiva forza nello spogliarmi dei vestiti, nel mostrare la mia carnalità, oggi quei ricordi sembrano estinti. D’improvviso sono rimasto solo.
I giocattoli erano la malattia del gioco, me ne accorgevo appena ne scoprivo il segreto. I giocattoli erano ciò che atrofizzava o annientava la facoltà insita nella mente del bambino: piegare gli oggetti agli imperativi della propria fantasia. Il bambino veniva ora piegato agli imperativi della malattia.
I semplici bastoncini, fonte di inesauribili scenari inventati, stimolo di accrescimento delle proprie facoltà intellettive - e non solo intellettive - restavano là, in un prato o lungo qualche riva, e non divenivano più archi o lance, frecce o addirittura impalcature per case di legno. Talvolta divenivano pure fucili - e trasformarli in fucili carichi di pallottole inesistenti significava annunciare il proprio attaccamento alla vita proprio testando la minaccia della guerra contro di essa. Quel gioco conduceva alla consapevolezza che la guerra fa male e non è per nulla una cosa bella, che lo strazio degli stupri di ogni genere crea psicosi e ancora qualcuno la spinge, la vuole, la brama. Psicopatici.
 
Ed ora che i giocattoli si sono decuplicati, che il tempo del gioco è defunto, ho il timore di ritrovare un’infinità di bambini che non misurano più se sé stessi, che non sviluppano più le facoltà che serviranno poi, quando saranno 'grandi' (ma qui, nella sconfinata provincia fatta ad immagine e somiglianza del provincialismo, di adulti bambini ce n'è a iosa: puerili, dominati da simpatie e antipatie, mossi da congetture e mai da prove, fideisti verso l'autorità, il paternalismo di un'istituzione o del giornale o della cosiddetta tivvù, cui rivestono di un'aura divina: arie mefitiche, infernali, rigonfie di corpi ormai svuotati di ogni senso vero, sincero, genuino: maschere di orrori che essi perpetrano giornalmente, non importa il ruolo sociale: sono mostruosi ed io so di andare incontro alla morte: l'arena vedrà il mio sangue stillare da ogni ganglio del mio corpo, già lo vedo fuoriuscire ogni giorno; e quei pochi, rari individui ancora umani sono, come me, perseguitati, torturati, uccisi come si uccide il fiore viola in un campo di papaveri "siccome non è ammodo: il campo deve essere rosso, il viola non lo accettiamo").
La conseguenza del decuplicarsi dei giocattoli è e sarà un mondo privo d’arcaicità, senza gli scandali profondi della carne che suscitano necessariamente l'empatia tra gli uomini: soltanto la carne del proprio corpo è rimasta, ancora per poco; e, nell'incalzante sterilità, il mio rammarico si spegne, mi rivolgo altrove e che il disastro si compia in toto.



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