Annì


Era caduta nella tela a quadretti della vita pulita. Ogni quadretto era figlio di violenze su sé stessa, aveva scardinato ogni prospettiva, ogni occhio che portava in sé, per discuterlo. E si era discussa sino alla secchezza, le sue labbra, la sua gola erano aride: non parlava più per nessuno, per nessuno era più qualcosa.

E lei sola, con la sua superbia di essere superiore alle proprie corde, ora se ne vagolava tra i corpi e i corpi vuoti delle sue sensazioni: tanta era la distanza che tanto aveva costruito con tanta zelante puntualità, che ora la viscera vuota di una creatura inesistente era ciò che lo specchio rifletteva di lei.
Ma non lo specchio d'argento, quel film che irretisce anche la creatura più snodata, che la anchilosa sino al pomo d'Adamo, sino alle tube di Falloppio, e la raggira con il canto di un'immagine formidabile, unica, irripetibile, no: lo specchio era l'eco dentro di sé dei suoi tentativi mascherati da grandiosi superamenti. Quello specchio le ricacciava indietro l'odore, ecco quel che faceva, e la schiaffeggiava con dita piccole, di ferro, per infettarla in ogni midollo che possedeva con l'intuizione di essere una creatura immonda. E lei era una creatura immonda, quel che abbracciava marciva, si spegneva; e la sua scia era la scia di una lumaca fatta di eternit. Ma la morte per lei non arrivava.

 Quanto ancora doveva restare in quella selva di pulsioni sterili, di facce sfregiate dalle volontà più cieche, l'ultima, la più cieca tra tutte: vivere ad ogni costo. La volontà morale che la ostacolava e la feriva ad ogni respiro, quella volontà che esaltava la propria ottusità nel buco nero di un universo disperso. Perché lei percepiva ad ogni secondo la caducità di ogni sistema e si chiedeva: perché continuare, che malattia ho? E continuava a vivere, stentava a vivere priva di qualsiasi cosa che le desse una ragione per vivere.
 

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