Nabokov e Dostoevskij (Spunti e Riflessioni da Correggere e Sviluppare) - Poche Precise, Troppe Imprecise


 Nabokov, nel suo studio sulla letteratura russa, nel capitolo dedicato a Dostoevskij, trovò che lo scrittore non fosse un grande scrittore nel senso di Tolstoj, Puškin e Cechov. Lo scrisse nel capitolo dedicato a I Demoni. Poiché egli, Dostoevskij, fu troppo frettoloso nel creare i suoi mondi senza il minimo senso di quell’armonia e di quell’economia che il più irrazionale dei capolavori è tenuto a rispettare (per essere un capolavoro) (cit.).

Ma c'è una questione.
Lo scrittore russo non poteva assolutamente, per ciò che rappresentava, creare capolavori di letteratura così come li intendeva Nabokov. Non poteva perché la rappresentazione artistica dell'opera di Dostoevskij consistette nell'esprimere la realtà in tutti i suoi gradi. La realtà non ha una forma: è articolata e chiara e oscura, geniale, monotona e stupida. Tutto ad un tempo e tutto ciò è compreso dalla realtà che, e questo è il punto dell'esistenzialismo stabilito da Dostoevskij, di per sé è interpretata individuo per individuo: oltre che dai precetti anche dai propri stati d'animo. Per questo motivo i personaggi di Dostoevskij non sono plastici, così come furono i personaggi di Tolstoj, descritti attraverso quel che indossarono, quel che fecero, cosa incontrarono, ma non principalmente attraverso quel che provarono. Quel che provarono si rivela da quel che fecero o da come altri personaggi si posero di fronte a questi. I personaggi di Dostoevskij invece furono descritti essenzialmente attraverso quel che provarono. Perciò si presentano come una cosa informe, che si allarga e che si restringe all'interno di ambienti che rispondono a questo dilatarsi e contrarsi dei personaggi. L'ambiente, le sue forme, la temporalità all'interno dell'opera di Dostoevskij, sono elementi soggetti alle sensazioni dei personaggi. Non il contrario come avviene, invece, per quei personaggi descritti da Tolstoj, che agiscono e si riflettono all'interno di un ambiente temporalmente cadenzato da un organismo superiore ad essi.
Questo è il punto che, in contraddizione con Nabokov, mi trova a considerare l'opera di Dostoevskij insuperata nel suo realismo, che lo stesso Dostoevskij definì “fantastico” (ne Diario di uno Scrittore) per l'importanza che tutta la parte che riguarda la realtà di ognuno, ma che viene spesso inconsiderata (i sogni stupidi, quelli incontrollabili e anche quelli lucidi, le frivole e passeggere intuizioni ecc.), prende nel considerare la realtà, cioè se stessi, in tutti i gradi di intendimento della realtà. Tralasciare anche solo uno di questi gradi avrebbe significato, per Dostoevskij, venir meno al realismo... fantastico, che forse è il supremo modo per rappresentare la realtà.
Anche per questa ragione l'opera di Dostoevskij non si lascia rileggere con facilità. Si sente, anzi, nell'aprire lo stesso libro di Dostoevskij, una seconda volta, per rileggerlo, un fastidio verso quel modo di scrivere che sembra davvero brutto, insopportabile. Sembrerebbe che l'opera di Dostoevskij sia fatta per una sola lettura, non di più. Come si spiega?

Su questo mi sono interrogato spesso, per molto tempo, e mi si è presentata un'idea che spero venga messa in discussione visto che, per ora, ancora non l'ho trovata espressa in alcuno studio sull'opera di Dostoevskij (mi riferisco a quei testi che ho incontrato fino ad ora, testi di studio sull'opera di Dostoevskij, una quarantina. Tra le centinaia di testi esistenti forse qualcuno avrà già discusso questa questione.).
L'idea è questa. Stabilito che l'opera di Dostoevskij consiste nella rappresentazione della piena realtà e che, quindi, la forma della sua opera non può che essere inintelligibile, o almeno inintelligibile nei processi formali di una rappresentazione artistica letteraria, può essere che l'incontro con l'opera di Dostoevskij si produca in quei recessi formativi del lettore che non possono essere stimolati se non nell'unicum di un incontro esperienziale. O, per dirla più semplicemente, potrebbe darsi che l'opera di Dostoevskij costituisca un'esperienza differente dalla consueta esperienza letteraria?
In questo senso, si potrebbe dire che l'opera di Dostoevskij sia qualcosa di diverso dalla letteratura romanzesca. Qualcosa che banalmente si pone tra la letteratura e la filosofia e la psicologia senza essere nessuna di queste discipline. Si potrebbe dire che l'opera di Dostoevskij sia a sé, questo è stato detto ed è anche stato detto che non si è trattato di un filosofo né di uno psicologo, ma quel che non ho trovato detto è che l'opera di Dostoevskij abbia a che vedere con una formazione che si discosta di poco da quel che si forma attraverso l'esperienza reale di un accadimento o di un accidente reale. Quasi che l'opera di Dostoevskij, proprio per il suo pieno realismo, si ponesse nei recessi formativi del lettore in una zona più vicina alla memoria di un incontro reale che in quella zona relegata alla letteratura.
Così mi spiego la difficoltà, l'insopportabilità del rileggere l'opera di Dostoevskij: si tratterebbe di violare un carattere ormai acquisito che rientra nella sfera della realtà fisica.
Di conseguenza si pone una domanda, che, per estensione, dalla letteratura di Dostoevskij, si rivolge al campo della realtà: le proprie esperienze sarebbero sopportabili nel caso si avesse l'opportunità di riviverle realmente?

Soltanto in questo modo, almeno per ora, mi spiego la ritorsione dei sensi nell'affrontare una seconda volta l'opera di Dostoevskij così come, invece, viene naturale riprendere l'opera di Tolstoj, per esempio, per rileggerla completamente, prestandosi ad un gioco che è assai meno sconvolgente rispetto all'impresa di rileggere l'opera di Dostoevskij. Con l'opera di Tolstoj si interverrebbe su una parte che si dà alla rivisitazione e, quindi, alla revisione, ma con l'opera di Dostoevskij si dovrebbe intervenire su una parte più articolata, nell'intimo, forse più pregnante, meno disposta a lasciarsi scardinare per essere riordinata a propria discrezione. Poiché si trova in una regione che non ha a che vedere con gli artifici letterari. O, perlomeno, dato che in fondo realtà è pure artificio, correggendomi direi che ha a che vedere con le cose profondamente personali e, perciò, si commetterebbe un delitto nella sua rivisitazione.*



*Non che non si possano o non si debbano rivisitare le proprie esperienze personali. Piuttosto, ad ogni rivisitazione c'è qualcosa che muore oltre a qualcosa che nasce o rinasce rinvigorendosi. In questo consiste la mia visione, in questo contesto, di delitto.

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